Pubblicato in: Lun, Dic 14th, 2015

Diario di Guerra/“Pennetta, tu sei salvo, tuo fratello ti ha salvato”

Prosegue il racconto di un Reduce salentino del Secondo Conflitto Mondiale.

Con grande dignità il monteronese Pippi Pennetta racconta il dramma da egli vissuto nel tentativo di fuggire dalla guerra. La stes­sa dignità si legge nei volti di chi oggi cerca di scappare dalla guerra che si combatte sull’al­tra sponda del Mediterraneo sebbene nei loro occhi traspaia tutta la sofferenza, la paura e la solitudine. Tuttavia a confor­tare le angustie del caro Pippi ci pensano gli abitanti delle isole greche: “A trecento metri circa dalla costa il motoveliero si fermò non potendo conti­nuare oltre ma anche perché non riusciva a proseguire. Da riva erano arrivate barche con barelle, mentre loro provvede­vano a scendere i feriti e i morti. Ma ecco spuntare dietro una nube una grande formazione di aerei nemici, alla vista di questi, avendo ancora presente sotto gli occhi gli effetti dell’ultima visita ci spaventammo tutti, molti feriti svennero. Davanti a tutti i nostri occhi si svol­geva fulminea la scena che esattamente 24 ore prima si era svolta sul motoveliero. Quelli che fummo in grado di farlo, ci buttammo in mare, mezzo vestiti, tentando di raggiungere a nuoto la terra, per allontanarci dal possibile bersaglio. Ma gli aerei o non si accorsero di noi o non vollero tormentarci ancora vedendo forse le condizioni in cui era ridotto l’imbarca­zione e l’equipaggio. I Greci perciò con le barche dovettero raccogliere anche noi dal mare perché le forze ci venivano meno ed imploravamo aiuto; infatti da quattro giorni non si mangiava e le scene di cui noi eravamo stati testimoni ed attori, avevano molto fiaccato le nostre forze. Nelle condizioni in cui Dio volle, giungemmo a riva dove molta folla, in gran parte donne, si era adunata alla notizia dell’arrivo di un gruppo di naufraghi, perché tali ci potevamo chiamare.

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Tutti furono molto colpiti dal triste stato in cui ci presentavamo e più ancora del numero dei morti e feriti. Ci portarono in una casa privata dove ci fu offerto un po’ di cognac e praticate le prime cure ai feriti. Fra tutti io mi reggevo un po’ in piedi mentre tutti gli altri erano distesi per terra ormai sfiniti. Mi avvicinai all’amico Fusco che ancora mi ripeteva: “Pennetta, tu solo sei salvo, tuo fratello ti ha salvato” e scoppiò in un pianto dirotto ed io con lui. Nell’isola non vi erano tedeschi ma non di meno era sempre sottoposta ai comandi militari tedeschi, ai quali il maresciallo dei carabinieri dovette comu­nicare il nostro arrivo. I Greci insistevano sulla impossibilità di continuare il viaggio perché una volta scatenatosi il tempo­rale il motore anche se rimesso no avrebbe potuto resistere allo sforzo e quindi il battello im­mobile sarebbe rimasto in balia delle onde che questa volta l’a­vrebbero sicuramente sfasciato o rivoltato. Ci volle del bello e del buono per convincere quei tedeschi intestarditi e si ritornò verso terra. Ed il temporale non tardò ad esternarsi furioso sconvolgendo il mare fino sul fondo e sollevandolo in grandi masse in alto. Riparati in una piccola insenatura non ne risen­timmo molto gli effetti. Tuttavia un più forte mal di mare ci sconvolse completamente, verso il mezzogiorno del 26 il mare incominciò acquetarsi. Il Capi­tano fatti i suoi calcoli decise di salpare verso le 17 per giungere poi a Creta la mattina seguente compiendo il percorso in gran parte nelle ore notturne. Ma quale sciagura il motore fatto un breve percorso si fermò. Era anche lui esausto dallo sforzo sostenuto. Tememmo o ne ave­vamo quasi la certezza di non poter più continuare il viaggio disperando di poter toccare la terra ferma. Era il decimo giorno dalla partenza dell’isola di Rodi, dieci giorni di digiuno quasi completo tranne quel po che ci fu offerto dalla generosità dei Greci sull’isola di Caso ma che rigettai completamente sul battello per il mal di mare. I no­stri occhi si offuscavano ad una cupa mestizia e invasi i cuori disperavano di poter arrivare di poter vivere. Felici quelli che sotto ai colpi della mitraglia o delle schieggie erano caduti ed avevano chiuso la loro esistenza rapidamente. Noi invece eravamo condannati a vedere con i nostri stessi occhi illanguidire e spegnersi lentamente le energie vitali le esasperazioni di quei momenti tanti strazianti ci portò ad invocare l’aiuto dei Liberatori a finire con le loro mitraglie. Ma immezzo a tanta disperazione ebbi un’ispirazio­ne. Nessuno da tempo aveva bestemmiato, ma piuttosto invocato il nome del Signore. Perché non rivolgerci a Lui che tutto può e tutto perdona? Mi sollevai un po sugli altri e dissi ad alta voce: “Amici, forse tutto non è ancora perduto, ci rimane ancora una via, preghiamo il Si­gnore che ci aiuti e nel caso ci purifichi gli animi. Riuniamoci a recitare con tutto il cuore il Santo Rosario alla Madonna”. Alcuni il cui cuore duro aveva fatto intenerire la sciagura par­teciparono meglio degli altri. Disposti attorno recitavano la corona, ed era veramente bello e tragico insieme assistere a tale manifestazione.

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Il moto­rista intanto collaborando con gli altri Greci, si davano da fare attorno al motore che ormai sfi­niti anche loro dalle forze non facevano che gli ultimi sforzi. Non avevamo ancora finito di recitare quando delle grida di soddisfazione ci annunziarono che il motore si era messo in moto e di corsa scappavano a togliere le ancore. Inginocchiati allora completammo la corona con maggiore fervore, recitam­mo una preghiera di ringrazia­mento con al certezza che la Madonna ci avrebbe condotto incolumi fino alla terra ferma di Creta. Il mare si era intanto calmato e fatto liscio come una tavola, e su di esso filava veloce con grande meraviglia, il povero battello. La Madonna aveva fat­to un miracolo e ci proteggeva. Con la manifestazione evidente alcuni fra noi che avevano poca fiducia nella Religione cattolica ci ricredettero e diventarono fer­vorosi della Madonna del Rosa­rio alla quale vollero poi spesso recitare il Rosario. Anche i greci credettero al miracolo dicendo: “Quando andare in Grecia rac­contare italiani pregare, motore partire”. La vista della terra di Creta ci sollevò alquanto gli animi abbattuti da tante sciagure e riconfermò la fiducia nella Ma­donna che certamente ci aveva salvati. Il veliero una volta in moto non si era più fermato ed ora si dirigeva a toccare la terra, sul mattino del 28 ottobre data abbasta chi verso la terra che non ci sembrava vero di poter toccare. Ma il mare voleva ancora darci una prova delle sue forze. Da tutte le parti esso rigettava numerosi cadaveri, e con grande dolore, tutti di italiani e numerose squadre erano andati a raccoglierli, cosa dunque era successo? Sapemmo dopo che lo stesso era stata af­fondata una nave fuori la baia di Sudan carica di oltre cinquemila soldati italiani, prigionieri, che i tedeschi intendevano portare sul continente. Sapemmo anche che non era quella la prima nave che subiva quel trattamento ma che nessuna ne scampava e che in ogni occasione sempre po­chissimi erano i naufraghi che riuscivano a salvarsi. Sbarcam­mo bella baia si San Nicola e ci condussero subito in un vicino campo di smistamento prov­visorio dove rimanemmo due giorni sdraiati per terra perché le due tende tedesche che costi­tuivano l’unico arredamento del campo erano già piene. Chiedemmo notizie agli altri circa il trattamento riservato sull’isola agli italiani e ap­prendemmo da questi che il trattamento variava con una certa suddivisione in categorie che era stata fatta e che ognuno poteva scegliere. La prima cate­goria era quella dei Combattenti che avevano trattamento quasi identico alle truppe germani­che e presso quella se n’erano andati la maggior parte dei fascisti. La seconda categoria erano i Lavoratori armati i quali in caso di necessità avrebbero svolto lo stesso incarico dei Combattenti. Nella terza erano i lavoratori che avevano lo stesso trattamento dei prigio­nieri sol che non erano chiusi in campi di concentramento ma suddivisi in accantonamenti ma non potevano però mai sortire e nella quarta i Prigionieri. Il trat­tamento fra queste due ultime categorie differiva dall’essere i prigionieri chiusi in campi di concentramento e soggetto ad essere imbarcati presto. Ogni giorno difatti venivano imbarcati i prigionieri ma quasi ogni nave era affondata dagli alleati che, si scagliavano con vendetta contro i poveri prigio­nieri italiani ed i prigionieri, privi di salvagente, perivano in gran parte in mare. Il terzo gior­no del nostro arrivo sull’isola fummo interrogati e richiesti per la scelta della categoria, io non volendo essere imbarcato e tor­nare per la stessa via donde mi­racolosamente ero uscito scelsi la terza. Giorni dopo fui avviato ai lavori di fortificazione dell’i­sola ove erano a lavorare molti altri italiani. Sarebbe ora lungo narrare tutte le umiliazioni subite in questo periodo ma che sopportavo perché le notizie giunte dei prigionieri imbarcati erano sempre uguali alle prime. Son rimasto a lavorare per i Germanici fino a giugno 1944 e poi finalmente ammalandomi fui mandato all’ospedale dove fui ricoverato”.

Salvatore Tornese

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