Dopo le penitenze quaresimali… I Frutti della Terra sulle tavole salentine
Dopo le penitenze quaresimali/Le puddhiche in bella vista in ogni casa, bambini, ragazzi e adulti scoppiavano in grida di gioia e facevano lieto rumore con le trozzule.
Periodo di penitenza, i quaranta giorni della Quaresima un tempo imponevano il divieto assoluto di “incammarare”, ossia di cibarsi di carne, uova e perfino formaggi. Questo divieto non si coniugava tuttavia con la rinuncia al gusto e l’ingegno delle massaie ha tramandato piatti appetitosi. Utilizzando infatti i prodotti della terra e del mare: grano, legumi olive, pomodori, vite, erbe aromatiche, verdure, mandorle, pesce, baccalà e frutti di mare, declinati in vario modo, talvolta combinati insieme, si offrivano alla mensa piatti genuini e gustosi, di cui oggi è riconosciuto il valore nutrizionale, spesso dono di ricette antichissime, originali o reinterpretate. Periodo di penitenza. Una cucina povera che rappresentava l’economia dei tempi e che rivestiva spesso carattere metaforico, richiamando i simboli dell’immaginario religioso. Il colore nero dei Pizzarieddhi cu lu cuettu per esempio evocava il lutto della penitenza.
L’attesa si concludeva un tempo il sabato quando la Resurrezione di Gesù si salutava a mezzogiorno e il popolo cantava: “Sabatu santu, ieni currendu,/tutte le fimmene hanu chiangendu,/ hanu chiagnendo cu tuttu lu core./ pudhiche cu l’oe, pudhiche cu l’oe”. A Lecce nella cattedrale il vescovo intonava il “Gloria” e un allegro scampanio portava il lieto annuncio alla gente radunata in piazza Duomo, nelle piazzette e nei cortili. Dopo la trepidante attesa, ritmata dal incitamento dei più giovani: “O suoni o me l’imbocco”, riferito alle Puddhriche in bella vista sulla tavola, ragazzi e adulti scoppiavano in grida di gioia e facevano lieto rumore con “trozzule”, “fuochi d’artificio”, mandando in frantumi a colpi di pietra cataste di vecchie stoviglie, le còtume o cùtume, e procurando ogni sorta di rumore. Le madri alzavano i figli piccoli al cielo per chiedere benedizione e tutti si salutavano e abbracciavano, dopo la penitenza purificatrice della Quaresima, in un abbraccio di solidarietà e di pace.
CADDE CADDE
Ingredienti di questo piatto dalla lunga preparazione: grano duro stumpatu, cioè pestato, farina, olive nere snocciolate, capperi, alici, sale e pepe. Mettere a bagno per qualche ora il grano in acqua fredda, non girarlo, ma colarlo e schiumarlo, come per i legumi. Cuocere e a cottura quasi ultimata condire con olio, soffritto con aglio e salsa di pomodoro, lasciando insaporire sul fuoco.
A parte preparare una sfoglia con farina, olio fatto soffriggere, acqua e sale; stenderla sottilissima e ritagliare, con la fustella apposita o un piattino da caffè, dischetti da riempire con un cucchiaio di grano, olive nere, pezzetti di alici e capperi. Ripiegare i dischetti, fissarne i bordi con i rebbi di una forchetta, con acqua e albume, friggerli in olio ben caldo, fino a doratura. Delle Cadde Cadde esiste una variante dolce che alla farina aggiunge lo zucchero e al grano, cotto senza aglio e pomodoro, unisce miele, mostarda d’uva, mandorle tostate e tritate grossolanamente.
BARBARASCIA FRITTA (BORRAGINE FRITTA)
Barbarascia è il nome salentino della borragine, (Borago officinalis L.), pianta erbacea officinale diffusa nei luoghi incolti. Il nome deriverebbe per alcuni dal latino borra (tessuto di lana ruvida), per la peluria che ricopre le foglie, per altri dall’arabo abu araq (padre del sudore), forse per le proprietà sudorifere della pianta. Soprattutto nella zona di Santa Maria di Leuca costituisce un cibo devozionale, legato al culto della Madonna. A Gagliano del Capo, il Venerdì Santo, quando si celebra la Madonna Addolorata, le sue foglie e i suoi germogli, accuratamente lavati ed asciugati, vengono passati in una pastella preparata con farina e lievito di birra sciolto in acqua tiepida e lasciata lievitare in ambiente tiepido per circa due ore. Sono quindi fritti in olio vergine d’oliva bollente, lasciati asciugare su carta assorbente e serviti caldi. Il 7 dicembre, In occasione della vigilia dell’Immacolata, la borragine viene utilizzata nella farcitura delle pittule.
LE COCULE E LE VARIANTI
Declinata con qualche variante nei vari paesi, la ricetta è originaria di Galugnano dove è attestata fin dal 1300. Il nome deriverebbe dal greco Kòkkos, uovo, per la forma tondeggiante delle protagoniste. Destinate al Sabato Santo, ma gustose tutto l’anno, sono polpette di pane lasciato ad indurirsi nella mattra, grattugiato e unito a formaggio pecorino grattugiato, ricotta forte, prezzemolo, pepe nero, menta, uova.
In una terrina unire gli ingredienti e aggiungere uova fino ad ottenere un impasto liscio e plasmabile con cui formare le “cocule”; disporre in un tegame, preferibilmente di terracotta, e ricoprire di sugo di pomodoro, oppure brodo di manzo o di gallina, o ancora latte. Una variate aggiunge al pane le patate, un’altra la ricotta. Volendo si cosparge formaggio grattugiato sul composto prima di infornare per tre ore. A Galugnano è tradizione portare a far cuocere le cocule nei grandi forni, in una commovente processione di gastronomia e devozione.



















