Giorgio De Giuseppe/Caso Moro. “In Italia, terrorismo sottovalutato”
La terza parte dell’incontro con il Difensore Civico della Provincia di Lecce.
Il penultimo segmento dell’incontro con il sen. Giorgio De Giuseppe è il più ricco di storia repubblicana ma è anche quello più emotivamente sentito e più vissuto con trasporto interiore. Il Difensore civico racconta gli anni di piombo del nostro Paese. La vicenda di Aldo Moro lo segnò particolarmente. “A parlare di Moro – attacca De Giuseppe – mi si stringe davvero il cuore in quanto anch’io all’epoca più volte fui seduto al tavolo delle decisioni. Il terrorismo in Italia è stato molto sottovalutato. A volte, troppo tardi ci si accorge che un piccolo granello di sabbia è diventato una collina. All’inizio la Dc era isolata nella lotta al terrorismo. Solo in un secondo momento le altre forze popolari si sono unite al nostro partito. E fu allora che le forze dell’ordine e la magistratura sono riusciti a debellare questo fenomeno criminale”. “Personalmente – prosegue il senatore – non ho niente da rimproverarmi in merito a quel periodo, anzi per quel che posso, ancora oggi cerco di mantenere vivo il ricordo delle vittime del terrorismo. A Maglie ho voluto l’erezione del monumento dedicato a Moro ed ogni anno organizzo incontri con i giovani per spiegarne loro la figura”.
“Non ci fu niente da fare – si commuove il Difensore civico -, perfino la Caritas aveva lasciato accese le luci quella notte perché si sapesse che lì v’era il denaro pronto se le Brigate Rosse ne avessero fatto richiesta. In realtà esse non chiedevano soldi, volevano solo e soltanto un colpo di stato. Anche quello che fece Craxi simulando una trattativa, fu solo una perdita di tempo. Nel comunicato n°8 del mese di aprile del 1978 le Brigate Rosse scrissero i nomi dei 13 brigatisti che dovevano essere liberati. Ma scarcerare quei brigatisti avrebbe rappresentato il crollo dello Stato perché quand’anche Aldo Moro fosse stato liberato, il giorno dopo i brigatisti avrebbero potuto rapire l’ultimo dei cittadini dell’ultima frazione d’Italia e porre le stesse condizioni”. “Fu un dramma – continua De Giuseppe. Fu drammatico dover prendere una decisione, specie per noi che avevamo studiato sui libri di Moro, per me che lo avevo scelto come relatore della mia tesi di laurea. Conoscevamo il suo pensiero. Nei suoi testi parlava di uno Stato che si inginocchia dinanzi al cittadino e tra la filosofia del diritto che insegnava a Bari e le lettere che scriveva dal carcere vi era un’incredibile coerenza e continuità. Però quando si passa dalla teoria alla concretezza del governo del Paese, alla responsabilità nei confronti di 60 milioni di persone non ci si deve porre il problema se la salvezza della Repubblica sia una priorità rispetto a quella del singolo. Pur tra mille tormenti personali, la salvezza dell’Istituzione è prioritaria”.
Poi il senatore si sofferma sul suo rapporto personale con Aldo Moro e apre gelosamente la scatola dei ricordi. “I miei ricordi sono frammentari in quanto personalmente non appartenevo al gruppo dei Morotei, eravamo su posizioni rispettosamente critiche e i nostri rapporti erano soprattutto “ufficiali” ma sempre molto affettuosi. Moro era sempre di una sensibilità eccezionale. Ricordo con chiarezza l’incontro che ebbi insieme a lui, a Flaminio Piccoli e a pochi altri della direzione del partito, con Enrico Berlinguer, di cui tanto si parlò. Quel vertice ruppe definitivamente il ghiaccio tra Dc e Pci”. “Una volta, in piazza S. Oronzo – ricorda l’ex vice presidente a Palazzo Madama, parlando dei suoi maestri – un contadino lo fermò, c’era un vento forte e, nonostante piovesse, Moro si tolse il cappello. Il contadino parlò per venti minuti mentre Moro prendeva appunti, quando finì il colloquio prima di recarci al Bar della Borsa per mangiare qualcosa mi permisi di dire: professore, corre il rischio di raffreddarsi ed egli mi rispose dovevo togliermi il cappello, era un cittadino. “Un’altra volta, – le memorie si spostano sul sen. Pella, secondo presidente del Consiglio della Repubblica e più volte ministro – partecipando alla prima riunione del gruppo di senatori della Dc, vi giunsi con l’intenzione di non parlare, circondato da gente che non conoscevo, gli unici amici erano Ciccio Ferrari e Sandro Agrimi. Ma vedendo il protrarsi del dibattito ad un certo punto chiesi la parola, presiedeva Fanfani, non ricordo cosa dissi di preciso ma sta di fatto che, quando Fanfani rispose, si rivolse solo a me e non agli altri, esprimendo quello che condivideva e quello che non condivideva. Finita la riunione con i 148 Senatori della Dc, alle mie spalle, mentre uscivamo dalla sala, sentii la voce di Pella (che personalmente non conoscevo ma avevo avuto modo di ascoltare durante le manifestazioni di Trieste sulla questione relativa alla sua Presidenza del Consiglio dei Ministri), che rivolgendosi a me diceva: De Giuseppe, oggi hai ottenuto un grande successo, cerca di fartelo perdonare. Voleva aiutarmi a non farmi illusioni, essendo io alle prime armi. Come quando Fanfani ad un corso mentre gli rivolgevo un’infinità di domande, egli comprendendo il mio disorientamento disse: De Giuseppe, quando non sai cosa dire, rifugiati nei principi essenziali, Mi invitava, in altre parole, praticamente a rifarmi ai valori, la stella polare per non smarrirsi mai”.
I valori di un partito nato sulle ceneri della Guerra mondiale e con la speciale vocazione a far vivere in politica i principi del cattolicesimo. “È necessario – rileva De Giuseppe – distinguere nel partito due momenti: quello precedente al 1948 e il successivo. Nel ’48 l’intervento della Chiesa e dei Comitati civici guidati da Luigi Gedda furono determinanti per il successo del partito. Altrimenti al potere sarebbero andati solo il Partito Comunista e quello Socialista. Questo non si è verificato grazie all’intervento delle gerarchie della Chiesa di Roma. Nel tempo, il rapporto si è sempre più affievolito poiché le ragioni che lo avevano fatto nascere nel ’48 via via scemarono. Pertanto, la Dc non è stata mai un partito dei cattolici ma di cattolici, lo si può vedere anche dall’elettorato come anche dalla contrarietà di coloro i quali votavano i Monarchici, i Liberali, il Movimento Sociale Italiano. Su alcune cose c’era l’accordo ma sulle scelte sociali no, il partito compiva le sue scelte politiche alla luce dell’insegnamento dei Pontefici ma in autonomia, basti pensare al caso del 1952 a Roma, quando Pio XII avrebbe voluto, per assicurare la vittoria al comune della Capitale che la Dc avesse fatto una lista comune con i Missini e con i Monarchici. Il partito fu contrario e De Gasperi, avendo richiesto un’udienza con la famiglia, non fu ricevuto da Pio XII. In seguito scrisse al Papa: come cattolico ne prendo atto, come Presidente del Consiglio dei Ministri d’Italia avanzo le mie osservazioni. Poi, la battaglia sul divorzio e sull’aborto che videro impegnato più il partito che la struttura ecclesiale. Personalmente, durante i miei comizi per l’Italia su questi grandi temi l’aspetto religioso lo trascuravo sempre, come fatto di coscienza non lo esponevo in piazza. Parlavo delle ripercussioni sull’istituto famiglia o su quello che significava l’aborto come assassinio di una creatura che ha il diritto alla vita e che è già viva sin dal grembo materno”.
Pagine a cura di Christian Tarantino

















