La Lezione più difficile/La Scuola in corsia tra i bambini ammalati
A colloquio con il Prof. Fabio Manni, Responsabile della Scuola Speciale presso l’Oncologico di Lecce.
“Come è facile immaginare, l’esperienza dell’insegnamento in una scuola cosi particolare coinvolge sfere professionali, ma anche emotive, poiché i docenti si confrontano con la malattia infantile; ciò condiziona la prassi didattica”.
“Durante questi tre anni il pensiero va sicuramente a quegli alunni che “non ce l’hanno fatta”. Tra questi, ricordo il mio primo alunno di dieci anni che, dopo un’iniziale fase collaborativa, peggiorò drasticamente e fu costretto ad indossare un respiratore artificiale”.
Salento, terra di risorse naturali e di tesori… umani. Quando, infatti, una figura di educatore, quale è quella dell’insegnante, diventa icona di umanità, è allora che può dirsi “di ruolo”, perché realmente vive ciò che è chiamato ad essere. Fabio Manni, attualmente docente di ruolo e responsabile della Scuola in Ospedale di Lecce, ha insegnato presso il Consolato italiano in Germania (Missione Cattolica di Saarbrucken), a Milano presso l’Opus Dei (Scuola Paritaria Faes) e ha prestato collaborazioni e consulenze per varie associazioni milanesi e tedesche.
Professor Manni, Lei insegna in un Ospedale Oncologico, con nomina da parte dell’Ufficio Scolastico della Provincia di Lecce. Ci vuole descrivere esattamente come il Ministero si sia mosso al riguardo? Come è nata l’idea dell’insegnante “missionario”?
La “scuola in ospedale” nacque da iniziative di carattere volontario nel nord-Italia, successivamente il Ministero, negli anni Ottanta, fece proprie queste esperienze, istituendo la Scuola statale in Ospedale. In particolare, qui a Lecce, grazie all’interessamento e alla sensibilità dell’associazione. “Per un sorriso in più”, la scuola in ospedale è nata nel 2012. Come è facile immaginare, l’esperienza dell’insegnamento in una scuola cosi particolare coinvolge sfere professionali, ma anche emotive, poiché i docenti si confrontano quotidianamente con la malattia infantile; ciò condiziona sia la prassi didattica che i metodi pedagogici da adottare.
Quali potrebbero essere le differenze oggettive e sostanziali rispetto alla scuola pubblica? Come siete stati accolti dai bambini?
Le differenze rispecchiano le esigenze degli ammalati, di conseguenza i nostri interventi didattici devono necessariamente essere flessibili, per adeguarsi ad ogni alunno in maniera del tutto personale. I bambini ci hanno sempre accolto in modo caloroso e curioso, poiché hanno percepito la scuola in ospedale come una continuità della vita normale.
Calandoci in una dimensione interiore, esiste un “diario di bordo” che possa di volta in volta registrare la crescita dell’approccio umano con studenti così speciali?
Certo, è così. Dopo il mio terzo anno di servizio nella scuola in ospedale, mi sento di ringraziare gli alunni che in questi anni mi hanno insegnato cosa significhi vivere una vita da bambini condizionata continuamente dalla malattia. La mia gratificazione maggiore rimane centrata sulla differente modalità di fare scuola. Proprio grazie a questo nuovo percorso approvato dal Ministero, infatti, ci si è accostati ad un mondo meraviglioso, reso tale da larghi sorrisi e da teneri sguardi riconoscenti, che i nostri piccoli elargiscono generosamente…
C’è stata qualche esperienza che ha lasciato segni profondi nel Suo iter professionale? Si sente di raccontarla?
Durante questi tre anni di esperienza nella scuola in ospedale, il pensiero va sicuramente a quegli alunni che “non ce l’hanno fatta”. Tra questi, ricordo il mio primo alunno di dieci anni che, dopo un’iniziale fase collaborativa, peggiorò drasticamente e fu costretto ad indossare un respiratore artificiale. Questa fu una delle prime conseguenze di una malattia che non lasciò scampo. Successivamente, infatti, il piccolo studente non riuscì più a muoversi, a leggere, scrivere, colorare…addirittura guardare! I nostri incontri erano accompagnati dal rumore inesorabile di una macchina che differiva tempo e silenzi. Ricordo tutte le immagini della Vergine Maria appese alle pareti della stanza, la serenità della madre che, forte della sua fede, era convinta che il figlio sarebbe riuscito a salvarsi. Non nascondo che talvolta, uscendo dalla stanza del bambino, nel momento in cui toglievo la mascherina, mi sentivo sollevato, ma la lezione evidentemente non finiva lì. Continuava dentro di me, nella vita di tutti i giorni. È stato proprio in quel momento che mi resi conto dell’inadeguatezza di ciò che avevo imparato e messo in atto in anni di insegnamento. Tutti i metodi pedagogici, le prassi didattiche e le tanto rinomate tecnologie si scontravano contro un muro invalicabile, quello della morte di un bambino; questo mi indusse a una profonda riflessione esistenziale e professionale, poiché tutte le certezze acquisite come uomo e come insegnante vacillarono. In questo mio personale percorso, ho scoperto tuttavia una preziosa risorsa, che nella sua estrema semplicità può apparire banale: la relazione autentica tra maestro e alunno, intesa come scambio reciproco di informazioni e di emozioni. In seguito a questa interiorizzazione di quanto stava accadendo, riusìi a trovare un canale comunicativo con il bambino, individuandolo nella narrazione di semplici storie inventate o adattate, e soprattutto a lieto fine, che lui gradiva ascoltare ad occhi chiusi. Trascorso un certo periodo di tempo dalla sua morte, sognai un gruppo di alunni festosi che correvano nel giardino di una scuola… tra questi c’era anche lui.


















