Pubblicato in: Ven, Ott 23rd, 2015

La Lezione più difficile/La Scuola in corsia tra i bambini ammalati

A colloquio con il Prof. Fabio Manni, Responsabile della Scuola Speciale presso l’Oncologico di Lecce. 

“Come è facile immaginare, l’esperienza dell’insegnamento in una scuola cosi particolare coinvolge sfere professionali, ma anche emotive, poiché i docenti si confrontano con la malattia infantile; ciò condiziona la prassi didattica”. 

78

“Durante questi tre anni il pensiero va sicuramente a quegli alunni che “non ce l’hanno fatta”. Tra questi, ricordo il mio primo alunno di dieci anni che, dopo un’iniziale fase collaborativa, peggiorò drasticamente e fu costretto ad indossare un respiratore artificiale”. 

Salento, terra di risorse na­turali e di te­sori… umani. Quando, infat­ti, una figura di educatore, quale è quella dell’inse­gnante, diventa icona di umanità, è allora che può dirsi “di ruolo”, perché real­mente vive ciò che è chia­mato ad essere. Fabio Manni, attualmente docente di ruolo e respon­sabile della Scuola in Ospe­dale di Lecce, ha insegnato presso il Consolato italia­no in Germania (Missione Cattolica di Saarbrucken), a Milano presso l’Opus Dei (Scuola Paritaria Faes) e ha prestato collaborazioni e consulenze per varie associazioni milanesi e tedesche.

Professor Manni, Lei inse­gna in un Ospedale Onco­logico, con nomina da par­te dell’Ufficio Scolastico della Provincia di Lecce. Ci vuole descrivere esat­tamente come il Ministero si sia mosso al riguardo? Come è nata l’idea dell’in­segnante “missionario”?

La “scuola in ospeda­le” nacque da iniziative di carattere volontario nel nord-Italia, successivamen­te il Ministero, negli anni Ottanta, fece proprie que­ste esperienze, istituendo la Scuola statale in Ospedale. In particolare, qui a Lecce, grazie all’interessamento e alla sensibilità dell’asso­ciazione. “Per un sorriso in più”, la scuola in ospeda­le è nata nel 2012. Come è facile immaginare, l’espe­rienza dell’insegnamento in una scuola cosi particolare coinvolge sfere professiona­li, ma anche emotive, poi­ché i docenti si confrontano quotidianamente con la ma­lattia infantile; ciò condi­ziona sia la prassi didattica che i metodi pedagogici da adottare.

Quali potrebbero essere le differenze oggettive e sostanziali rispetto alla scuola pubblica? Come siete stati accolti dai bam­bini?

Le differenze rispecchiano le esigenze degli ammala­ti, di conseguenza i nostri interventi didattici devono necessariamente essere fles­sibili, per adeguarsi ad ogni alunno in maniera del tutto personale. I bambini ci han­no sempre accolto in modo caloroso e curioso, poiché hanno percepito la scuola in ospedale come una continu­ità della vita normale.

12  AD

Calandoci in una dimen­sione interiore, esiste un “diario di bordo” che pos­sa di volta in volta registra­re la crescita dell’approc­cio umano con studenti così speciali?

Certo, è così. Dopo il mio terzo anno di servizio nella scuola in ospedale, mi sento di ringraziare gli alunni che in questi anni mi hanno insegnato cosa significhi vivere una vita da bambini condizionata conti­nuamente dalla malattia. La mia gratificazione maggiore rimane centrata sulla diffe­rente modalità di fare scuo­la. Proprio grazie a questo nuovo percorso approvato dal Ministero, infatti, ci si è accostati ad un mondo meraviglioso, reso tale da larghi sorrisi e da teneri sguardi riconoscenti, che i nostri piccoli elargiscono generosamente…

C’è stata qualche espe­rienza che ha lasciato se­gni profondi nel Suo iter professionale? Si sente di raccontarla?

Durante questi tre anni di esperienza nella scuola in ospedale, il pensiero va sicuramente a quegli alunni che “non ce l’hanno fatta”. Tra questi, ricordo il mio primo alunno di dieci anni che, dopo un’iniziale fase collaborativa, peggiorò drasticamente e fu costretto ad indossare un respiratore artificiale. Questa fu una delle prime conseguenze di una malattia che non lasciò scampo. Successivamente, infatti, il piccolo studente non riuscì più a muoversi, a leggere, scrivere, colo­rare…addirittura guarda­re! I nostri incontri erano accompagnati dal rumore inesorabile di una macchi­na che differiva tempo e silenzi. Ricordo tutte le im­magini della Vergine Ma­ria appese alle pareti della stanza, la serenità della ma­dre che, forte della sua fede, era convinta che il figlio sarebbe riuscito a salvarsi. Non nascondo che talvolta, uscendo dalla stanza del bambino, nel momento in cui toglievo la mascherina, mi sentivo sollevato, ma la lezione evidentemente non finiva lì. Continuava den­tro di me, nella vita di tutti i giorni. È stato proprio in quel momento che mi resi conto dell’inadeguatezza di ciò che avevo imparato e messo in atto in anni di insegnamento. Tutti i meto­di pedagogici, le prassi di­dattiche e le tanto rinomate tecnologie si scontravano contro un muro invalicabi­le, quello della morte di un bambino; questo mi indusse a una profonda riflessione esistenziale e professionale, poiché tutte le certezze ac­quisite come uomo e come insegnante vacillarono. In questo mio personale per­corso, ho scoperto tuttavia una preziosa risorsa, che nella sua estrema sempli­cità può apparire banale: la relazione autentica tra maestro e alunno, intesa come scambio reciproco di informazioni e di emozioni. In seguito a questa interio­rizzazione di quanto stava accadendo, riusìi a trovare un canale comunicativo con il bambino, individuandolo nella narrazione di semplici storie inventate o adattate, e soprattutto a lieto fine, che lui gradiva ascoltare ad occhi chiusi. Trascorso un certo periodo di tempo dalla sua morte, sognai un gruppo di alunni festosi che correvano nel giardino di una scuola… tra questi c’e­ra anche lui. 

Pages: 1 2

Lascia un commento

XHTML: You can use these html tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

 

Gli articoli più letti