Pubblicato in: Sab, Giu 7th, 2014

Memorie di un Reduce/Pippi e i suoi compagni , una nuova Odissea

Prigionieri all’Aeroporto di Calato…

Dopo una settimana trascorsa nell’inferno del campo di prigionia situato nei pressi dell’aeroporto di Calato, una nuova Odissea attendeva Pippi ed i suoi compagni. Essi furono avvisati all’ultimo momento di dover abbandonare l’isola non più con trasporto aereo bensì per via mare, percorso molto insidioso a causa della presenza nel Mediterraneo della flotta inglese che già aveva affondato diverse navi cariche di italiani prigionieri dei tedeschi. Alcuni elementi, poi, evidenziarono a Pippi la cattiva sorte verso cui andava incontro: il terremoto verificatosi istanti prima di salire sull’automezzo militare, il giorno  “ 17 “ ottobre  ed  il colore del sole che “tramontava sul mare e tingeva di rosso, quasi di sangue”.  Intanto, i greci di Rodi, legati da sentimenti di amicizia nei confronti degli italiani, cercavano di offrire piccoli doni e parole di conforto ai prigionieri ma venivano allontanati energicamente dai tedeschi. Furono imbarcati su di un piccolo veliero. Erano in tutto “61 prigionieri italiani, tre greci addetti al governo dell’imbarcazione e cinque tedeschi”.

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In fin dei conti il numero delle sentinelle non era eccessivo, si poteva tentare un colpo di mano, pensarono tutti, ma non se ne fece nulla sia per le piccole dimensioni dell’imbarcazione sia per le “cattive” condizioni del mare. Il giorno dopo, stanchi ed affamati, approdarono a Scarpanto. Pippi, generoso come sempre, diede la sua coperta ad un compagno colpito da febbre malarica ma un tedesco gliela tolse apostrofando, l’autore del generoso gesto con “linguaggio bestiale”. Ad un maresciallo dei carabinieri, “aderente”, che era intervenuto in favore dell’infermo,  i soldati tedeschi riferirono che i soldati italiani  non erano dei semplici prigionieri ma “elementi accusati di omicidio verso ufficiali tedeschi”. Solo in quel momento Pippi e compagni  vennero a conoscenza di che cosa erano accusati, capirono che il loro destino era segnato e si pentirono di non aver portato a termine il loro complotto.

“Dopo circa una settimana, un giorno ritornando dal campo, non ritroviamo più le nostre tende. Cosa era successo? Si partiva. Per dove? Con che mezzo? Si abbandonava l’isola non più per via aerea ma per via mare.  Ci distribuirono in fretta la solita brodaglia e ci fecero salire sull’auto. La partenza non si prospettava molto bella, tanto meno poi ci piaceva per via mare perché per questa via ben pochi mezzi riuscivano a passare e nessuno completamente incolume. Pochi minuti prima che gli automezzi si mettessero in moto una scossa di terremoto ci dice il suo triste segnale. Segnale certamente di morte verso la quale eravamo sicuramente avviati come agnelli.  Dopo  qualche ora giungemmo a Lindo, piccola località marittima situata sulla parte occidentale dell’isola di Rodi. Non vi era in questo alcuna banchina ma era un porticciolo di barche solo alla fonda un po’ più lontano dalla costa era un veliero di piccolo tonnellaggio che con le vele ammainate dondolava sull’acqua. Guardammo quel veliero e non credemmo che potevamo imbarcarci su quella piccola imbarcazione per far la traversata dell’Egeo. Era il tramonto del 17 ottobre.

Il sole tramontava sul mare e tingeva di rosso, quasi di sangue, solo la cima delle colline rimanevano ancora rischiarate dagli ultimi raggi già rossastri. Spirava un forte vento  ed il mare era scosso. Scesi dagli autocarri fummo messi per fila e con le guardie ai lati fummo portati sulla riva ove erano alcune barche guidate da greci ad attenderci. Durante il breve percorso dagli auto sulla riva molti greci si erano avvicinati a noi per offrirci qualche sigaretta e darci una parola di conforto ma i tedeschi tutti li ricacciavano con disprezzo togliendo anche quel po’ di sollievo che ci potevano recare i loro piccoli doni e le loro parole. Salito sulla barca mi avvicinai ad un vecchietto che la guidava, domandando dove ci portavano e questo con la voce strozzata da un groppo di pianto che gli serrava la gola mi disse che quel veliero ci avrebbe portato all’isola di Creta molto probabilmente.  

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Ed in silenzio aggiunse che loro mal vedevano i tedeschi perché in modo così brutale deportavano gli italiani dall’isola dopo che da trentatre anni essi si trovavano a far tanto bene alla popolazione indigena. Queste parole erano dette col cuore perché gli occhi si inumidivano di lacrime, era questo l’unico modo con cui i greci di Rodi ci manifestavano la loro affezione già da noi provata negli anni di nostra permanenza nell’isola. Ci imbarcarono tutti sul veliero che batteva bandiera greca. Eravamo complessivamente 61 soldati italiani, tre greci intenti alla manovra del veliero e cinque tedeschi che ci accompagnavano. Salpammo la sera stessa del 17 con un mare che non ci dava troppa fiducia su quel piccolo veliero. Fummo ammonticchiati sotto quella piccola stiva e sopra in coperta mentre i tedeschi sedettero a prua con il fucile e pistola a mitraglia rivolta verso di noi ed accanto due cassette di bombe a mano, già aperte e pronte per eventuale uso. Fra noi e le guardie correva uno spazio vuoto di un paio di metri in cui fu collocata una lampada cieca. Passato il primo momento di angoscia, così uniti come eravamo complottammo per accoppare i cinque soldati tedeschi e far dirigere il veliero verso la Turchia.                      

Ci trovammo tutti d’accordo su questo progetto, decisi a tutto per ottenere lo scopo. Bisognava interpellare i greci che non ci sembravano a noi ostili trattandosi di greci di Rodi, ed anche perché loro più competenti in materia potevano assicurare se il veliero fosse capace di far tanto percorso, e poiché loro conoscevano meglio di noi la rotta che tenevano e quella che si doveva prendere. Si parlò col timoniere il quale ne parlò anche agli altri due che si trovarono d’accordo a tentare il colpo,  solo ci esposero i loro dubbi circa la buona riuscita dell’impresa sia perché imbarcatici da Lindo, situata sulla parte occidentale di Rodi, dovevamo camminare circa un giorno solo per rifare tutta il tratto della lunghezza di Rodi e poiché il veliero non essendo molto forte non ci assicurava il nostro transito e qualche aereo tedesco di ricognizione avrebbe potuto vedere la falsa rotta e questa volta non ce l’avrebbero risparmiata la vita. I tedeschi non si accorgevano di questo nostro complotto ed erano sicuri che noi non avremmo realizzato nulla data la piccolezza del battello. Se ne stavano perciò sempre attenti a prua con le loro fide armi fra le gambe.  Fra tutte queste nostre discussioni e decisioni era intanto trascorsa tutta la notte, al domani il 18  ci trovò in alto mare in mezzo ad un mare che non ci dava molta fiducia. Vedemmo che ormai era impossibile tentare il colpo di mano anche perché col cattivo mare eravamo presi dal mal di mare la maggior parte e ci affidammo alla Provvidenza. Camminammo in queste condizioni per tutto il giorno, anzi quelli validi furono costretti a vuotare l’acqua che le grandi onde, frangendosi contro il battello, rovesciavano nell’interno di esso. È inutile descrivere in quali condizioni eravamo quando il giorno dopo toccammo terra sull’isola di Scarpanto. Scendemmo e rimanemmo là sul posto buttati per terra come cenci e piantonati sempre da diverse guardie. Un mio povero compagno era rannicchiato per terra e tremava per l’attacco di una fortissima febbre malarica. Gli buttai addosso la mia coperta per coprirlo un po’. Ma non l’avessi mai fatto, perché una guardia stappò via la coperta e buttandola lontano mi rivolse numerose parole di rimprovero con quel suo linguaggio bestiale che io non comprendevo. Raccolsi quella coperta guardando sempre quel poveretto che faceva proprio pena. Poco tempo dopo venne un Maresciallo dei Carabinieri italiano, aderente, ci rivolgemmo a lui che ci poteva comprendere, se si poteva avere per il poveretto l’aiuto di qualche infermiere che gli somministrasse almeno un po’ di chinino. Il Maresciallo promise ma ritornò subito senza aver  potuto ottenere niente  perché i tedeschi dissero che noi eravamo non prigionieri, ma elementi accusati di omicidio verso ufficiali tedeschi. Così era qui giunta la motivazione. Noi eravamo innocenti di tale accusa, ma comprendevamo che con ciò il nostro destino era segnato e ci pentimmo di non aver rischiato la vita nel tentativo di liberazione che avevamo prima complottato”.    

Salvatore Tornese

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