Pubblicato in: Mar, Ago 25th, 2015

Santi, Artisti, Miracoli e Contese/Lupiae, A.D. 1658: Da Irene a Oronzo

L’anno che segnò il trapasso, l’avvicendamento ufficiale nel protettorato civico della città capoluogo del Santo. 

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Un anno è solo una parentesi tra un infinito arco di tempo che lo prece­de e un altro infinito che lo seguirà. Tuttavia esistono quegli anni capaci di lasciare traccia, di imprimersi, come una benefica ferita, nella vita del singolo. A volte poi scendono nel profondo dell’esistenza di una comunità intera e così ne divengono patrimonio e memoria. Tant’è vero che li si inizia a scrivere in lettere e con la maiuscola. Sarà forse questo il destino del 1658, l’Annus Domini che, secondo una felice espressione dello storiografo Mario Cazzato, segnò “il trapasso”, cioè l’avvicendamento ufficiale nel protettorato civico dalla vergine Irene al ve­scovo Oronzo.

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Non si trattò di un futile bizan­tinismo, di una bega da sagrestie barocche ma di un evento gravido di significato, l’autentico happening per il Salento del XVII sec. Al fine di comprenderne appieno la portata epocale è necessario però almeno abbozzare le coor­dinate storico-culturali in cui esso avvenne partendo dal contesto remoto in cui affonda le radici.

UN CULTO PROVENIENTE DALL’ANTICA TESSALONICA

Come scriveva l’indimenticabile mons. Francesco Tarantini, il culto leccese per la martire Irene sembra provenire direttamente da Tessalonica e svilup­parsi durante la dominazione norman­na. Sin dal IV sec. infatti, l’odierna Salonicco era una tappa obbligata nei collegamenti tra l’Italia e la Terra Santa. Per di più si trovava in posizione equidistante tra lo scalo di Otranto e Costantinopoli. Non c’è dunque da stupirsi se già nel 1114 il vescovo Formoso Bene aveva fatto erigere una torre coronata del tutto simile a quella esistente, all’epoca, nella città greca e che la tradizione locale indicava come il luogo in cui la santa era stata rinchiusa dallo snatu­rato padre. Appena settant’anni dopo il conte di Lecce Tancredi (†1194) avrebbe espugnato proprio lo strategico centro macedone. Le due città si ritrovarono così gemellate anche sul piano politico. Con lo scorrere del tempo il capoluogo salentino elesse la coraggiosa ver­gine venuta dall’Oriente quale celeste patrona e fece della famosa torre il proprio emblema araldico. Un esempio di tale simbologia è visibile ancora oggi su un capitello della cripta della Cattedrale. Inoltre anche per Irene si verificò quel processo di contaminazione agiografica che contraddistinse lo sviluppo della devozione popolare di molti altri santi. La sua figura iniziò dunque ad avere dei tratti comuni alla più nota martire Barbara e finì per essere invocata per scongiurare il pericolo dei fulmini.

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UN QUADRO CITTADINO COMPLETAMENTE CAMBIATO

Queste furono le origini del culto irenia­no nell’antica Lupiae ma, agli albori del Seicento, la città presentava ormai una situazione ben diversa. Ancor meglio che dai prodi Normanni del remoto passato, Lecce si vedeva ora occupata dai numerosi ordini presenti all’interno delle mura. Complice una certa debolezza di go­verno ecclesiale che aveva contraddistinto gli episcopati di Annibale Saraceno (1560-1591) e Scipione Spina (1591-1639), i religiosi erano divenuti i veri protagonisti dello spazio urbano, anche se la loro coabitazione non sempre si rivelava pacifica. Tra le tante fami­glie di vita consacrata, due erano assurte ad una posizione di grande influenza e prestigio, Teatini e Gesuiti. I primi riuscirono a far pro­pria l’immagine della protettrice, dedicandole un magnifico tempio sul corso ma i secondi, giunti nel Salento al seguito del carismatico padre Bernardino Realino da Carpi (1530- 1616), ebbero la soddisfazione di vedere accorrere le autorità comunali al letto di morte di questo loro insigne confratello cui vennero consegnate solennemente le chiavi della città. Tale gesto, comunque compiuto in maniera del tutto unilaterale dalla municipalità e senza alcun coinvolgimento delle gerarchie ecclesia­stiche, riconosceva il Realino come santo e lo investiva della carica di patrono. Poco importò allora che, appena qualche tempo prima, dalla mano gesuitica di Antonio Beatillo fosse stata prodotta la Historia della vita, morte, miracoli e traslatione di santa Irene (1609), podero­so scritto agiografico sull’antica martire. Il protettorato celeste del capoluogo aveva ormai assunto una connotazione molto fluida e sfu­mata, dietro la quale si nascondevano inevita­bili contese terrene.

LA LECCE SEICENTESCA E L’EPISCOPATO DI PAPPACODA

Come spesso accade nelle situazioni molto complesse e non ben definite, alla fine capita che arrivi un uomo della provvidenza in grado di prevalere su uno stato di cose difficile da sbrogliare. La Lecce seicentesca fece una tale esperienza sotto l’episcopato di Luigi Pappacoda (1639- 1670). Personalità a dir poco autoritaria e san­guigna, discendente da un’illustre casata della ricchissima e privilegiatissima nobiltà di spada campana, prelato fedele e zelante dei dettami tridentini, il nuovo pastore della diocesi non concepiva il suo ruolo come circoscritto al semplice ambito religioso ma profuse ogni energia per imporre la propria figura quale principale punto di riferimento per l’intero ter­ritorio anche in campo politico. Ovviamente la sua condotta non mirava certo all’instaurazio­ne di una sorta di governo a carattere teocrati­co in cui il vescovo potesse intendere sé stesso quale rex et sacerdos della città. Il fatto però che, nella facciata laterale del nuovo duomo dedicato all’Assunta, il leone rampante dello stemma episcopale pappacodeo svetti più in alto di tutto, relegando in posizione marginale (e quindi subalterna) gli emblemi del Capito­lo e del Comune, la dice lunga. Ed è proprio nella costruzione della cattedrale barocca, destinata a sostituire quella medievale ormai vetusta, che è possibile decodificare il pen­siero del combattivo prelato campano nonché riconoscere il passaggio dalla Lecce antica, di cui sarebbero sopravvissute solo flebili tracce, a quella nuova ammirabile ancora oggi. Il transito insomma dalla Lecce di Irene a quella di Oronzo. 

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