Carceri di Terra d’Otranto/La Casa Mandamentale di Monteroni e di Campi
Un nuovo viaggio nella Storia. Dopo l’Unità d’Italia.
L’uomo reo espierà nell’anima e non più sul corpo la sua pena. È questo il concetto da cui prenderà spunto, nel secolo XIX, una nuova visione di carcere, inteso sì come detenzione, nella sua vera natura di privazione della libertà fisica, ma soprattutto inteso come pena della rieducazione: rispetto della persona e del suo status sociale.
La crudeltà e la mancanza di pietà, che a lungo, nei corsi dei secoli, avevano mortificato l’istituto della detenzione con punizioni corporali, mancanza d’igiene e luce, richiamano con forza l’attuazione di norme e regole processuali meno autoritarie e ancor più meno vincolate a illogiche decisioni arbitrarie. Dopo l’Unità d’Italia, nel settore della legislazione carceraria furono emanati nuovi ordinamenti che disciplinavano il funzionamento degli istituti, a loro volta suddivisi per categoria, gli organici del personale di custodia e quello amministrativo.
La logistica, la disciplina, l’istruzione religiosa e la condotta dei guardiani verso i detenuti avevano priorità assoluta. In una nota del 30 novembre 1875 inviata dal comune di Monteroni e indirizzata al Prefetto della provincia, il sindaco Oronzo D’Arpe fa presente il cattivo “funzionamento” del carcere mandamentale, a causa del pessimo comportamento dimostrato verso i detenuti dall’allora rappresentante dell’impresa carceraria, chiedendo di “nominare altro individuo che lo rappresenti in questo paese, poiché egli non provvede ai detenuti, ai sensi del regolamento carcerario, facendo mancare loro l’acqua, e facendosi somministrare centesimi 35 al giorno in cambio del vitto”. L’impresa carceraria, infatti, serviva al buon andamento e servizio delle patrie galere, e dipendeva direttamente dall’Appaltatore Generale delle carceri della Provincia, a sua volta sotto l’egida dell’Ufficio del Procuratore del Re.















