Don Gigi Fanciano: 40 anni di “carcere”… Missione Liberazione
Borgo San Nicola…
“La cosa di cui si ha più bisogno all’interno della struttura restrittiva è l’ascolto: questo è il regalo più grande che i detenuti possano ricevere in quanto li solleva e li rigenera”.
“A Lecce la nuova struttura è immensa con tanti difetti nella costruzione: l’acqua piovana penetra in qualche cella. E poi c’è il problema del sovraffollamento: tre detenuti in una cella progettata per uno solo”.
In carcere il cappellano riveste un ruolo fondamentale: ha, perciò, bisogno di esperienza, del sostegno di altri preti e di volontari, della fiducia dell’ambiente, dell’accoglienza, di una buona dose di pazienza e tanto altro, nella consapevolezza che lì bisogna imparare a starci, ascoltare molto, che le attività strutturate sono sempre esigue di fronte alle sfide di un ambiente che preferirebbe essere dimenticato. A tale proposito, il Cappellano del carcere di Lecce, don Luigi Fanciano ci ha offerto uno spaccato di umanità in un luogo comunemente noto come sinonimo di abbrutimento infernale.
Don Gigi, per un carcerato è certamente importante il contatto con il Cappellano. Ma quanto il detenuto è significativo per la crescita umana e spirituale dello stesso Cappellano?
Sono cappellano del carcere da 40 anni, precisamente dal 1° giugno 1974. Posso persino dire che ho ricevuto più dal carcere che dalla parrocchia, perché nel carcere, se vuoi, incontri costantemente l’uomo, colui che soffre, che ha bisogno. Non per niente Gesù si è identificato con il carcerato. La Lettera agli Ebrei (13, 3) poi dice: “Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere”. Durante il mio lungo percorso, ho potuto ascoltare moltissime persone, potrei raccontare tantissimi episodi toccanti della mia esperienza con i reclusi. Ciò che mi viene subito in mente è la frase: “Don Gigi, iutame cu mme ‘nde ‘lleu stu pisu ca portu intru!” pronunciata da un internato della nostra provincia. Un altro di Brindisi, un bel giorno mi disse nella vecchia sede a “Villa Bobò” in lingua vernacolare: “Don Gigi, vorrei anch’io poter mangiare quella cosa che mangi tu”. Ed io gli chiesi, a mia volta, se conoscesse la vera natura del particolare alimento di cui mi parlava. Non lo sapeva davvero, ma dal momento che ero io a mangiarlo doveva essere cosa buona, secondo il suo linguaggio molto semplice. Aveva circa 35-40 anni, ma ne dimostrava molti di più. Gli chiesi prontamente se avesse mai frequentato il catechismo da ragazzino e ricevuto la prima comunione e la cresima, ma egli rispose di aver sempre vissuto con il suo gregge e che sua madre l’aveva, persino, partorito proprio in mezzo ai campi; che addirittura suo padre dopo il parto aveva accolto sua madre con una frase che suonava un po’ così: “Ma chi ha partorito, una pecora?”. E allora, un po’ prima della messa gli ho somministrato qualche pillola di catechismo suscitando il suo pianto: precisamente, a suo dire, da piccolo ogni cosa che avevano gli altri e che lui desiderava era “costretto” a rubarla per possederla, per cui era poi finito in galera. Mi abbracciò, piangendo insieme. Ed io pensai: “Chi sono io per impedirgli la comunione con Cristo Gesù”. Gli insegnai un po’ di catechismo e gli amministrai la confessione e la comunione nel giro di un quarto d’ora. Questo bel ricordo resterà sempre nel mio cuore con profonda commozione.
Intanto, muta la realtà del carcere…
Si potrebbero argomentare su tutte le interpretazioni possibili, politiche, brigatistiche…, per quanti casi ho visto. Ora ci sono gli spacciatori, i grossi spacciatori, i papponi, ma incredibilmente ” i buoni” sono gli assassini, perché, in effetti, spesso in un momento di debolezza hanno reagito ad una “provocazione”, la situazione è sfuggita loro di mano ed “è scappato il morto”, come suol dirsi. Tuttavia, ciò che non traspare all’esterno è il loro scrupolo, il loro pentimento che noi cappellani invece raccogliamo. E tante volte è grande, per cui chiedono di essere liberati da tale peso che li tormenta.
Questo è il suo comportamento nei confronti dei reati più gravi. Cosa vuol dire per lei discernimento, ascolto, accoglienza e mediazione?
In realtà, tutti questi atteggiamenti sono inconsci e, spesso, spontanei. Ciò di cui si ha più bisogno all’interno della struttura restrittiva è l’ascolto: esso è il regalo più grande che i detenuti possano ricevere, in quanto alla fine si sentono maggiormente sollevati, quasi rinati. Poi ci si reincontra positivamente. A Lecce, però, abbiamo un grossissimo svantaggio, che non era tanto evidente quando ero cappellano a Villa Bobò e con l’esiguo numero di carcerati festeggiammo persino il mio venticinquesimo anniversario di sacerdozio, per il quale mi regalarono una casula. Ai nostri giorni in cui si contano 1200 detenuti: la nuova struttura, inaugurata il 14 luglio 1997, è immensa, con tanti difetti nella costruzione, per cui, ad esempio, l’acqua piovana penetra in qualche cella. Il carcere era destinato ad ospitare 450 celle monoposto. Per evitare l’isolamento dei detenuti, si è poi duplicato il numero di ospiti in un vano. Si è addirittura arrivati a triplicare le presenze in un locale con il rischio di non avere la sedia per tutti. Ci sono letti a castello così alti che la terza persona può a stento sedersi sul letto senza rischiare di urtare il soffitto. C’è anche la difficoltà dell’approccio umano con il cappellano super impegnato tra parrocchia e carcere. In quest’ultimo, io sono presente dalle 10.30 alle 13 circa, ogni giorno. Sto in una sezione o nell’altra quanto ritengo opportuno. Io curo il blocco della R (reclusione di persone già condannate). Ci sono pure i reparti precauzionali, che a scopo cautelativo sono separati dagli altri, riservati a coloro che possono aver usato violenza su donne e bambini: essi non partecipano quasi mai alle iniziative comunitarie; pure a messa vengono da soli. Ed anche questa è una condanna.
Papa Pio XII ha definito i cappellani “soldati in prima linea, volontari in una missione di sacrificio e di ardue conquiste”. Il cardinale Martini ha anche detto che “il dolore ha tante facce, ma per un detenuto la più angosciante forse è la solitudine”. L’esperienza detentiva è paragonata alla sofferenza per la perdita di un genitore. Cosa ne pensa?
Qualche volta è meno dura la morte rispetto al carcere. Certo, la vita è sempre importante, ma la sofferenza che alla famiglia genera la detenzione di una persona cara non si può immaginare, considerando il dolore di una madre, di una moglie. La realtà più angosciante è sicuramente il distacco dei figli, che devono lasciare i propri genitori al di là delle sbarre. Per ovviare alla difficoltà abbiamo organizzato con i volontari la festa del papà, della mamma e della befana, perché le coppie possano stare insieme. Infatti, da un paio d’anni è attiva la sala dei colloqui per facilitare il diretto contatto umano tra parenti, prima impedito dai vetri antiproiettili. Adesso nei colloqui con i parenti sono stati eliminati anche i banconi separatori e i nuclei si possono ricomporre intorno al tavolino e possono consumare la caramella, il cioccolatino. Infatti, per la festa della befana le parrocchie contribuiscono regalando giocattoli, calze… per un paio d’ore i familiari si sono potuti ricongiungere.
Qual è la salute mentale dei carcerati? Com’è tutelata la salute in carcere?
La salute fisica è tutelata da una presenza continua di medici e farmaci, ma accade che i primi ci siano e che invece scarseggino i secondi. All’inno somministrati psicofarmaci e lasciati a se stessi. Certo, può succedere che abbia suscitato molto scalpore un caso come quello di due anni fa per un suicidio tramite impiccagione di un internato citato dalla stampa locale per un improvviso raptus a sfondo sessuale. Episodi di questo genere non sono infrequenti, nonostante si possa fruire della prestazione di psicologi e criminologi.

















