Pubblicato in: Gio, Mar 27th, 2014

Don Gigi Fanciano: 40 anni di “carcere”… Missione Liberazione

Borgo San Nicola…

“La cosa di cui si ha più bisogno all’interno della struttura restrittiva è l’ascolto: questo è il regalo più grande che i detenuti possano ricevere in quanto li solleva e li rigenera”. 

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“A Lecce la nuova struttura è immensa con tanti difetti nella costruzione: l’acqua piovana penetra in qualche cella. E poi c’è il problema del sovraffollamento: tre detenuti in una cella progettata per uno solo”.

In carcere il cappel­lano riveste un ruolo fondamentale: ha, perciò, bisogno di esperienza, del so­stegno di altri pre­ti e di volontari, della fiducia dell’ambiente, dell’accoglien­za, di una buona dose di pazien­za e tanto altro, nella consape­volezza che lì bisogna imparare a starci, ascoltare molto, che le attività strutturate sono sempre esigue di fronte alle sfide di un ambiente che preferirebbe esse­re dimenticato. A tale proposito, il Cappellano del carcere di Lec­ce, don Luigi Fanciano ci ha offerto uno spaccato di umanità in un luogo comunemente noto come sinonimo di abbrutimento infernale.

01/10/2012 Napoli, Carcere di Poggioreale, celle di sicurezza

Don Gigi, per un carcerato è certamente importante il contatto con il Cappellano. Ma quanto il detenuto è si­gnificativo per la crescita umana e spirituale dello stesso Cappellano?

Sono cappellano del carce­re da 40 anni, precisamente dal 1° giugno 1974. Posso persino dire che ho ricevuto più dal carcere che dalla parrocchia, perché nel carcere, se vuoi, in­contri costantemente l’uomo, colui che soffre, che ha biso­gno. Non per niente Gesù si è identificato con il carcerato. La Lettera agli Ebrei (13, 3) poi dice: “Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere”. Durante il mio lungo percorso, ho potuto ascolta­re moltissime persone, potrei raccontare tantissimi episodi toccanti della mia esperienza con i reclusi. Ciò che mi viene subito in mente è la frase: “Don Gigi, iutame cu mme ‘nde ‘lleu stu pisu ca portu intru!” pro­nunciata da un internato della nostra provincia. Un altro di Brindisi, un bel giorno mi dis­se nella vecchia sede a “Villa Bobò” in lingua vernacolare: “Don Gigi, vorrei anch’io po­ter mangiare quella cosa che mangi tu”. Ed io gli chiesi, a mia volta, se conoscesse la vera natura del particolare alimento di cui mi parlava. Non lo sape­va davvero, ma dal momento che ero io a mangiarlo doveva essere cosa buona, secondo il suo linguaggio molto semplice. Aveva circa 35-40 anni, ma ne dimostrava molti di più. Gli chiesi prontamente se avesse mai frequentato il catechismo da ragazzino e ricevuto la pri­ma comunione e la cresima, ma egli rispose di aver sempre vis­suto con il suo gregge e che sua madre l’aveva, persino, parto­rito proprio in mezzo ai campi; che addirittura suo padre dopo il parto aveva accolto sua ma­dre con una frase che suonava un po’ così: “Ma chi ha parto­rito, una pecora?”. E allora, un po’ prima della messa gli ho somministrato qualche pil­lola di catechismo suscitando il suo pianto: precisamente, a suo dire, da piccolo ogni cosa che avevano gli altri e che lui desiderava era “costretto” a rubarla per possederla, per cui era poi finito in galera. Mi ab­bracciò, piangendo insieme. Ed io pensai: “Chi sono io per im­pedirgli la comunione con Cristo Gesù”. Gli insegnai un po’ di catechismo e gli amministrai la confessione e la comunio­ne nel giro di un quarto d’ora. Questo bel ricordo resterà sem­pre nel mio cuore con profonda commozione.

Intanto, muta la realtà del carcere…

Si potrebbero argomentare su tutte le interpretazioni pos­sibili, politiche, brigatistiche…, per quanti casi ho visto. Ora ci sono gli spacciatori, i grossi spacciatori, i papponi, ma in­credibilmente ” i buoni” sono gli assassini, perché, in effetti, spesso in un momento di de­bolezza hanno reagito ad una “provocazione”, la situazione è sfuggita loro di mano ed “è scappato il morto”, come suol dirsi. Tuttavia, ciò che non tra­spare all’esterno è il loro scru­polo, il loro pentimento che noi cappellani invece raccogliamo. E tante volte è grande, per cui chiedono di essere liberati da tale peso che li tormenta.

Questo è il suo compor­tamento nei confronti dei reati più gravi. Cosa vuol dire per lei discernimento, ascolto, accoglienza e me­diazione?

In realtà, tutti questi atteg­giamenti sono inconsci e, spes­so, spontanei. Ciò di cui si ha più bisogno all’interno della struttura restrittiva è l’ascol­to: esso è il regalo più grande che i detenuti possano ricevere, in quanto alla fine si sentono maggiormente sollevati, quasi rinati. Poi ci si reincontra po­sitivamente. A Lecce, però, ab­biamo un grossissimo svantag­gio, che non era tanto evidente quando ero cappellano a Villa Bobò e con l’esiguo numero di carcerati festeggiammo persino il mio venticinquesimo anniver­sario di sacerdozio, per il quale mi regalarono una casula. Ai nostri giorni in cui si contano 1200 detenuti: la nuova strut­tura, inaugurata il 14 luglio 1997, è immensa, con tanti di­fetti nella costruzione, per cui, ad esempio, l’acqua piovana penetra in qualche cella. Il car­cere era destinato ad ospitare 450 celle monoposto. Per evita­re l’isolamento dei detenuti, si è poi duplicato il numero di ospiti in un vano. Si è addirittura ar­rivati a triplicare le presenze in un locale con il rischio di non avere la sedia per tutti. Ci sono letti a castello così alti che la terza persona può a stento se­dersi sul letto senza rischiare di urtare il soffitto. C’è anche la difficoltà dell’approccio umano con il cappellano super impe­gnato tra parrocchia e carcere. In quest’ultimo, io sono pre­sente dalle 10.30 alle 13 circa, ogni giorno. Sto in una sezione o nell’altra quanto ritengo op­portuno. Io curo il blocco del­la R (reclusione di persone già condannate). Ci sono pure i re­parti precauzionali, che a scopo cautelativo sono separati dagli altri, riservati a coloro che possono aver usato violenza su donne e bambini: essi non par­tecipano quasi mai alle inizia­tive comunitarie; pure a messa vengono da soli. Ed anche que­sta è una condanna.

Papa Pio XII ha definito i cappellani “soldati in pri­ma linea, volontari in una missione di sacrificio e di ardue conquiste”. Il cardi­nale Martini ha anche detto che “il dolore ha tante fac­ce, ma per un detenuto la più angosciante forse è la solitudine”. L’esperienza detentiva è paragonata alla sofferenza per la perdita di un genitore. Cosa ne pen­sa?

Qualche volta è meno dura la morte rispetto al carcere. Certo, la vita è sempre impor­tante, ma la sofferenza che alla famiglia genera la detenzione di una persona cara non si può immaginare, considerando il dolore di una madre, di una mo­glie. La realtà più angosciante è sicuramente il distacco dei figli, che devono lasciare i propri genitori al di là delle sbarre. Per ovviare alla difficoltà abbiamo organizzato con i volontari la festa del papà, della mamma e della befana, perché le coppie possano stare insieme. Infat­ti, da un paio d’anni è attiva la sala dei colloqui per facili­tare il diretto contatto umano tra parenti, prima impedito dai vetri antiproiettili. Adesso nei colloqui con i parenti sono stati eliminati anche i banconi separatori e i nuclei si possono ricomporre intorno al tavolino e possono consumare la caramel­la, il cioccolatino. Infatti, per la festa della befana le parroc­chie contribuiscono regalando giocattoli, calze… per un paio d’ore i familiari si sono potuti ricongiungere.

Qual è la salute mentale dei carcerati? Com’è tutelata la salute in carcere?

La salute fisica è tutelata da una presenza continua di me­dici e farmaci, ma accade che i primi ci siano e che invece scarseggino i secondi. All’inno somministrati psicofarmaci e lasciati a se stessi. Certo, può succedere che abbia suscitato molto scalpore un caso come quello di due anni fa per un sui­cidio tramite impiccagione di un internato citato dalla stampa lo­cale per un improvviso raptus a sfondo sessuale. Episodi di que­sto genere non sono infrequenti, nonostante si possa fruire della prestazione di psicologi e crimi­nologi.

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