Pubblicato in: Lun, Mar 17th, 2014

Mario Buffa/“Le lungaggini della giustizia sono la causa di tutte le disfunzioni”

La seconda parte dell’Intervista all’ex Presidente della Corte d’Appello di Lecce. dopo aver raccontato gli anni della lotta alla Sacra Corona Unita, in questo numero offre alcuni spunti riguardo ad alcuni temi d’attualità. 

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“La separazione dei poteri è principio fondamentale e irrinunciabile dello Stato moderno: purtroppo in Italia il potere politico attraversa un periodo di gravissima crisi”. 

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“L’amnistia o l’indulto non hanno mai avuto a che fare con la giustizia e nel tempo se n’è fatto un uso abnorme o per eliminare l’arretrato giudiziario o per sgomberare le carceri sovraffollate”.

La scorsa settimana abbiamo pubbli­cato la prima parte dell’intervista a Ma­rio Buffa, Presidente della Corte d’Appello sino allo scorso gennaio, mese in cui ha chiuso la sua cinquantennale carriera al servizio allo Stato e alla Società. Nel numero pre­cedente il racconto degli anni della lotta alla Scu e dei grandi processi che hanno segnato la storia giudiziaria del territorio salentino, in questa seconda parte Mario Buffa risponde alle nostre domande che si riferiscono a temi di attualità più vicini a noi nel tempo.

Presidente, si parla mol­to di necessità di una ri­forma del sistema giudi­ziario. Il suo pensiero in merito.

Sì, è necessaria. Occorre però una riforma seria e com­plessiva, una riforma studiata e destinata a durare nel tem­po non a risolvere situazioni contingenti e soprattutto dota­ta dei mezzi necessari perché possa essere realizzata. E in­vece negli ultimi tempi si sono fatte riforme condizionate dal­la contingenza, come quelle che, secondo le esigenze del momento, ampliano o riduco­no i casi di detenzione preven­tiva che dovrebbe essere, ma non è, un fatto assolutamente eccezionale quando reali e ve­rificate esigenze cautelari la impongano. Riforme che appe­na fatte vengono disfatte per­ché alla prova dei fatti risulta­no sbagliate e non funzionano o non c’è il modo di applicarle per non dire di tutto il tempo perso – voglio evitare qualsi­asi polemica – ad immaginare riforme che anziché giovare avrebbero destabilizzato tutto il sistema giudiziario, riforme pensate al solo scopo di risol­vere i problemi giudiziari di un personaggio di primo pia­no sulla scena politica e non già reali problemi della giusti­zia e dei cittadini. E, se da un lato è necessario abbandona­re e contrastare atteggiamenti causidici e formalistici, che intasano la giustizia per fatti di nessuna rilevanza effettiva, è necessario d’altra parte che l’apparato giudiziario sia po­sto in grado di dare una rispo­sta immediata alle istanze di giustizia perché le lungaggini della giustizia sono la prima causa di tutte le disfunzioni sicché è su questo terreno, la durata dei processi, che biso­gna intervenire.

La separazione dei pote­ri è uno dei valori impre­scindibili su cui si fonda ogni forma di democra­zia. Il rapporto equilibra­to tra le tre dimensioni è fondamentale. Oggi que­sto equilibrio è sotto at­tacco?

La separazione dei poteri è un principio fondamentale e irrinunciabile dello Stato moderno. L’indipendenza dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni non costituisce un privilegio dei singoli ma­gistrati, che contrariamente a quanto si crede, rispondono in varie sedi del loro operato e pretendono soltanto che il loro destino professionale non sia affidato alle mani interes­sate di coloro che sono stati o possono essere da loro giudi­cati, perché ciò costituirebbe un serio ostacolo al corretto esercizio della giurisdizione. Nel disegno della costituzio­ne non vi è squilibrio alcuno nei rapporti tra i tre poteri, il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. La verità è che nella realtà italiana il potere politico – ed è sotto gli occhi di tutti – attraversa un pe­riodo di gravissima crisi; la nostra classe dirigente (che, non dimentichiamolo, alme­no fino all’approvazione del porcellum siamo stati noi a sceglierci, sicché non siamo immuni da colpe) si dimostra sempre più incapace di risol­vere i problemi che affliggono la realtà italiana, spesso non è capace neppure di decidere se una strada vada percor­sa oppure no, se un ospeda­le o un ufficio improduttivo debba essere chiuso oppure no, se determinate forme di energia alternativa debbano essere agevolate e attraverso quali controlli, se e come va tutelata la salute dei cittadini dall’inquinamento di alcuni insediamenti produttivi (vedi il caso dell’Ilva a Taranto e ora si profila quello dell’E­nel di Brindisi); si discute da anni sulla riforma elettorale che tutti almeno a parole ri­tengono necessaria e indiffe­ribile e c’è voluta la sentenza della Corte Costituzionale per scuoterli un poco e ancora non sappiamo con quali esiti perché la riforma rappresenta ancora un terreno di scontro fra le forze politiche per ra­gioni che non vengono nep­pure esplicitate; certamente non è in grado di fare scelte definitive su alcuni temi di ca­rattere etico come il contrasto dell’omofobia, la tutela delle famiglie di fatto, ambiti in cui la realtà va avanti autonomamente suoi e la classe dirigen­te discute e rinvia.

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In questa situazione tipica della realtà italiana la risoluzione di ogni problema viene demandato all’autorità giudiziaria che di fronte ad una precisa istanza dei cittadini non può tirarsi indietro e vi provvede come può. Proprio ciò può aver de­terminato uno squilibrio tra i poteri dello Stato a favore di quello giudiziario, ma proprio quelli che oggi gridano contro le invadenze del potere giudi­ziario, in altri tempi saluta­rono con entusiasmo, in una prospettiva quasi salvifica, il ruolo di supplenza della ma­gistratura. E invece – e non è la prima volta che lo affermo – è impensabile che tutto possa ridursi al problema di giusti­zia, nel senso che ogni critici­tà nazionale, nella più totale assenza o indifferenza delle altre istituzioni, possa giun­gere a soluzione attraverso la via giudiziaria e nessuno può illudersi che il giudice possa essere l’onnipresente custode della vita sociale, economica e politica supplendo all’iner­zia delle altre istituzioni.

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