Pubblicato in: Dom, Dic 6th, 2015

Quant’è brutta la guerra. Senza se e senza ma

Diario dal Campo di Battaglia… I racconti drammatici di Pippi Pennetta, Reduce del Secondo Conflitto Mondiale. 

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“Contemporaneamente spazzavano la superficie del mare con le stesse armi togliendo la vita a quei pochi fortunati che tentavano di allontanarsi da quell’inferno”. 

Eh, si! La guerra è pro­prio una brutta cosa, la peggiore di tutte. Essa esiste “perché – dice papa Bergoglio – i soldi sono più importanti delle persone …! E la guerra è proprio questo: è un atto di fede ai soldi, agli idoli dell’o­dio, all’idolo che ti porta ad uccidere il fratello, che porta ad uccidere l’amore” ed ancora il 13 settembre 2014 nel Sacrario di Redipuglia il Papa diceva: “qui nel cimitero ci sono tante vittime di tutte le guerre. Anche oggi le vittime sono tante … come è possibile questo? è possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici , avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del ter­rore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli impren­ditori delle armi hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”.

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È proprio così! A loro, denaro o bramosia del potere a parte, non importa nulla delle atroci sofferenze cui sono soggette a soggiacere le popolazioni, bambini compresi, coinvolte nella guerra, dei soldati costret­ti a convivere continuamente con lo spettro della morte, ad uccidere per non essere uccisi, ad odiare altri uomini che non hanno mai conosciuto. I sentimenti, le preoccupazioni e le paure di un uomo e di un combattente sulle brutture della guerra sono perfettamente descritte da Pippi Pennetta nel suo diario inedito: “Dall’8 settembre 1943 al 28 novembre 1944 – Memorie di un Reduce” del quale di seguito si riporta una delle ultime pagine: Erano trascorsi dieci giorni quando venne l’ordine di prepararmi per l’imbarco poiché tutto il personale dell’ospedale com­presi gli ammalati venivano portati sul continente. Arrivarono le macchine e vi montammo col cuore palpitan­te raccomandandoci l’anima a Dio. Fortunatamente venne il contro ordine di smontare e ri­entrare in ospedale perché non si partiva più, la nave aveva già fatto il pieno.

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Il giorno dopo si apprese che la nave carica di 6.000 prigionieri italiani era stata affondata e che erano stati salvati dai Greci appena un centinaio di naufraghi. Appren­demmo poi da alcuni ricoverati particolari sull’affondamento della nave a pochi chilometri dalla costa. Colpita da due siluri al ventre la nave lasciava entrare grande quantità d’acqua che invadeva la stiva, ove privi di salvagente erano ammassati i prigionieri italiani. Nella grande confusione che ne era derivata, tutti tentarono di raggiungere la scaletta che conduceva in coperta donde avrebbero potuto tentare per gettarsi in mare e di allonta­narsi prima dell’esplosione delle caldaie. Ma gli aguzzini tedeschi non lo permettevano e gettavano numerose bombe a mano a basso la stiva, semina­vano strage ed aumentavano la confusione mentre per loro con rapide manovre si stavano calando in mare le scialuppe di salvataggio sulle quali presero poi comodamente posto. Non abbandonarono però i carnefici la nave ma bersa­gliavano con le loro mitraglie i prigionieri che comparivano in coperta. Contemporanea­mente spazzavano la super­ficie del mare con le stesse armi togliendo la vita a quei pochi fortunati che con sforzi sovrumani tentavano di allonta­narsi da quell’inferno.

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Quelli poi che di questi, risparmiati dalla mitraglia, si avvicinava­no ai loro canotti, ed esausti di forze si afferravano alla sponda, venivano respinti con calci o colpi calcio del fucile, o mozzando loro, cosa orrenda, le mani con la baionetta. La nave, col ventre squarciato affondava però lentamente e rimase a galla circa un’ora e mezzo finché l’acqua arrivando alle caldaie la fece esplodere. In tutto questo tempo molti avrebbero potuto salvarne ma furono tratti in salvo solo pochi da alcune piccole imbarcazioni greche accorse sul luogo del di­sastro. Questi poveretti tirati in salvo erano però stati rinchiusi nelle prigioni, ove rinvennero, perché imputati di ribellione sulla nave. Così si interpretava il loro gesto più che umano di sottrarsi alla morte sin dopo il siluramento, così i Tedeschi mostravano di rispettare le leggi internazionali e naturali. Furono tenuti nelle prigioni per 40 giorni inviando loro ogni giorno l’interprete ad esortarli a prepararsi a morire fucilati, ma dopo i quaranta giorni erano stati invece liberati dalle prigioni e riportati nel campo di concentramento. Prima di questa nave correva voce fra gli italiani e greci che avessero fatto la stessa fine circa diciot­tomila italiani su venticinque­mila che erano sull’isola di Creta ed appartenenti in gran parte alla divisione Siena. A questi bisognava aggiungere i morti nei campi di concen­tramento per bombardamento alleato. I campi erano infatti quasi sempre molto vicini a depositi militari, i morti per malattia e altro.

Salvatore Tornese

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