Giacinto Urso/Una vita da protagonista per il Salento e per il Paese
Da qualche mese ha compiuto 90 anni ma non gli passa la voglia di raccontare il suo lungo impegno nella vita politica interpretata come missione da compiere al servizio del bene comune.
“Riconquistata la libertà si è assistito ad una fuga del singolo dalla politica dell’impegno. Ci si è chiusi nel proprio fortino domestico, indulgendo alla delega ma, nello stesso tempo, pontificando su tutto e scaricando sempre sugli altri la colpa dei disastri”.
“Aver fermamente creduto, con operoso piacere, che la politica è missione oltre che un assoluto impegno verso l’uomo e verso Dio, accogliendo appieno il richiamo del profeta Geremia: Guai ai pastori di Israele che pascolano se stessi”.
Giacinto Urso ha compiuto 90 anni, 65 dei quali dedicati alla “Politica come missione oltre che assoluto impegno verso l’uomo e verso Dio”. Un dialogo su alcuni mutamenti della scena del Paese, visti con saggezza e passione civile.
Onorevole, la sua attività in politica l’ha vista protagonista per 65 anni. Come si è evoluto il Paese in questi anni? In meglio o in peggio? E perché?
Non è agevole giudicare un tempo così lungo e anche così tormentato. 65 anni sono quasi una vita. Perciò le mutazioni sono state infinite. Abbracciano, per giunta, due secoli, carichi di eventi. Comprendono l’intero arco dell’ultima guerra mondiale, con il suo doloroso carico di lutti, distruzioni e modificazioni profonde. Ho assistito al crollo di sistemi politici che sembravano invincibili, fascismo, nazismo, stalinismo, e avuta la fortuna di vedere aprirsi varchi di ritrovata libertà democratica. Vicende complesse: per l’Italia il peggio e il meglio si sono alternati. Evoluzioni positive ma anche sconcertanti derive negative. Il perché di tali cambiamenti direi che è stato modellato dalle differenze, volute dai tempi.
Ad ogni elezione con costanza aumenta il dato di chi sceglie di fare altro nel giorno dell’esercizio del diritto. Quali sono le cause che hanno maggiore peso in questo fenomeno?
La stanchezza. Riconquistata la libertà si è assistito man mano ad una fuga del singolo dalla politica dell’impegno. Sbagliando, ci si è chiusi nel proprio fortino domestico, indulgendo alla delega ma, nello stesso tempo, pontificando su tutto e scaricando sempre sugli altri la colpa del mancato raddrizzamento delle cose storte. A tutto ciò si è aggiunto il diffuso disamore per la politica, resa guasta, incerta, perennemente conflittuale. Questo ha alimentato sdegno, rabbia, disinteresse che hanno portato al preoccupante astensionismo. L’eclissi dei partiti, che non hanno rispettato le regole costituzionali, ha provocato una profonda disaffezione democratica, giunta sino all’estremo del ripudio del voto. Infine, la debolezza se non assenza di un’adeguata formazione politica amplificano le deviazioni. Così, la buona politica si affloscia e si rischia persino il rinnegamento democratico.
In aggiunta, potrebbe esserci anche lo scollamento tra decisore politico e base elettorale? Da più parti si lamenta la mancanza di “ascolto” delle esigenze del cittadino comune che spesso deve subire decisioni che maturano a distanza, senza un reale coinvolgimento dei territori.
Senza dubbio. La divaricazione tra decisore politico e base elettorale deteriora la qualità della democrazia e il rapporto con il cittadino. E, se si spegne l’ascolto, inevitabilmente muore il dialogo. Ideali, programmi, interventi divengono evanescenti, fragili e malamente praticati.
Gli schieramenti politici sono cambiati nel loro assetto. La sinistra è un po’ meno sinistra, la destra un po’ meno destra. Ma non sembra esistere più un centro che sia tale. Ritiene vera questa affermazione?
Oramai, in Italia e non solo, vi sono vere e proprie scuole di pensiero, proclivi a sostenere che le posizioni, classificate di destra, di sinistra e anche di centro esprimano termini superati, obsoleti. Certo, gli ideologismi vecchia maniera non reggono più. Non è un male. È un male che si smorzino gli ideali, tanto da giungere alla mancanza di idee, che porta all’incultura e all’ anarchia del vivere civile. Destra, sinistra e centro, oggi concetti sbiaditi, possono pure essere messi da parte a condizione che il diverso abbia un preciso appellativo sostitutivo, ricco di profonda spiritualità e di comprensibile identità da rispettare.
La corruzione è la radice, a detta di tutti, del deficit globale in cui versa il nostro Paese che, se non avesse il costo della corruzione potrebbe essere tra i primi al mondo per capacità produttiva. È un male inestirpabile? Da dove bisognerebbe partire?
Non facciamoci fuorviare dalle leggende. La corruzione, in ogni tempo e in ogni Paese, ha il suo posto del disonore. Certo, le percentuali variano e l’Italia non se la passa bene. In merito, però, non tutto regna e proviene dall’alto. Spesso si dimentica che è la società malata il volano del malaffare, diffuso in ogni strato e dovunque. Un male definito inestirpabile esige di non abbassare la guardia. Anzi occorre alzare l’asticella del vivere corretto. Il punto di partenza lo si deve trovare nel collegiale ripudio e nel fermo contrasto al fenomeno corruttivo.